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Aderisco all’invito di “Vivere il sociale”, affrontando un tema rispetto al quale, nel 2011 e in un Paese come l’Italia, si registra sin troppo disimpegno. E’ un problema che mi colpisce e mi ferisce, da professionista tecnico e da temporaneo “volontario” di un’associazione che assiste famiglie emarginate, l’A.VO.DI.C. di Favara.  Un tema di cui, a mio avviso, non si parla abbastanza e che, per contro, contribuisce ad alimentare il disagio sociale, la mancata integrazione, il mancato rispetto dei diritti dell’infanzia.

Il diritto alla casa è implicitamente sancito dalla Costituzione, quando questa prevede che “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10). Non solo, ma vi è poi un riferimento esplicito, quando, all’art. 47, prevede di favorire “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione…

Come spesso accade per tante previsioni dei padri costituenti, queste rimangono mere enunciazioni. Vera e propria “lettera morta”. La mancanza di idonee abitazioni, unitamente ad altre carenze in ordine a essenziali e imprescindibili, favorisce il disagio sociale. Favorisce la violenza domestica. Favorisce l’alienazione. Favorisce e accentua il solco incolmabile tra chi gode di questo diritto e chi, ancora nel 2011, non ha la possibilità, né la prospettiva, di un’abitazione adeguata. Rende impossibile l’integrazione. Si pone, spesso, come un ostacolo insormontabile, un vero e proprio “muro invalicabile”, l’invisibile perimetro di un moderno “ghetto” che tiene distinte e separate diverse “classi sociali”. Esattamente il contrario di ciò che prevedono la nostra Costituzione, la dottrina sociale della Chiesa, tutti gli insegnamenti progressisti di matrice post ideologica.

Ovunque affondi le proprie radici la nostra cultura, sia essa laica o religiosa, di destra o di sinistra, di sopra o di sotto, scopriamo che “abitare” è un diritto. Da qualunque parte volgiamo in nostro sguardo, ancora nel 2011, in Italia – Paese tra i più industrializzati – ci accorgiamo che si tratta di un diritto violato. E non si tratta di una problematica episodica, né marginale da un punto di vista quantitativo. Si tratta, piuttosto, da un punto di vista sociologico e non solo, di un “handicap grave” che contribuisce a impedire, spesso definitivamente, una compiuta evoluzione dell’essere umano. Su un bambino costretto a vivere con i suoi genitori e i suoi fratelli in una baracca, in una roulotte, in un magazzino cadente, quale futuro incombe? E le due sorelline favaresi, costrette a vivere, con i familiari, in un malandato stabile che si reggeva in piedi a fatica e che in quel gennaio 2010 “non ce l’ha fatta più” ed è venuto giù seppellendole, quale contributo avrebbero potuto dare a quella che ci ostiniamo a definire civiltà umana?

Ing. Giuseppe Riccobene

Vivere il sociale” nella propria terra deve significare anche guardarsi intorno, soffermandosi su ciò che ingiusto, profondamente ingiusto, e contribuire a modificarlo. Primo: “capacità di indignarsi” di fronte a qualcosa di profondamente ingiusto. Secondo: “scavare tra le proprie competenze”, trovandone qualcuna che suggerisca le più giuste soluzioni. Terzo: “adoperarsi senza risparmio” affinchè quelle soluzioni – o altre ancor più efficaci – si realizzino.

Di fronte ai “linticchieddi” favaresi e ai loro bambini, veri e propri condannati a morte per il solo fatto di vivere in “fabbricati fatiscenti”, io mi indigno e invito gli altri a farlo. In realtà mi indigno in misura analoga quando scopro, perché poi è facile scoprirlo, che alcuni tra i migliori rappresentanti della borghesia della mia città, Agrigento, affittano i propri ruderi ad “ospiti provvisori” (molto provvisori…), quei migranti che sfuggono da morte certa nel proprio paese per venire a farsi condannare qui, dall’avvocato, dal medico o dal commerciante che gli affittano una stanza, peraltro al prezzo corrente in via Montenapoleone piuttosto che a quello di via Gallo. Inspiegabili, o forse sin troppo spiegabili, “leggi di mercato”.

Poi scavo tra le mie competenze e scopro che le leggi del mio Paese prevedono severe sanzioni per chi abita o fa abitare un fabbricato che non possiede i requisiti, strutturali, impiantistici, igienico – sanitari. Qualcuno, in qualche ufficio, dovrebbe smetterla con la “Gazzetta dello Sport” e ritornare alla “Gazzetta Ufficiale”, probabilmente più consona ai ruoli. Qualcuno smetta, anche per piccoli lassi di tempo, di sintonizzare internet sui siti erotici e utilizzi piuttosto la rete per reperire quelle norme nazionali e locali che, a dirsi dai risultati, conosce molto meno delle misure delle varie pornodive.

Indigniamoci. E ci indigniamo. Tra l’altro va di moda. Poi scaviamo tra le nostre competenze, se le possediamo e se sentiamo il dovere di farlo. Utilizziamo la rete, le norme, il buon senso. E poi proponiamo soluzioni, battendoci pure affinchè si realizzino: una soluzione al disagio abitativo l’abbiamo sotto gli occhi, soprattutto in posticini di tutto rispetto, quali quelli dove viviamo, martoriati dall’abusivismo edilizio degli anni ’70 e ’80 e costellati da tutto quel “non finito siciliano”, probabilmente mai sanato e non sanabile, di qualità edilizia e urbanistica talmente scadente da non destare più interesse neppure nei “legittimi” proprietari.

Un “non finito e non sanato” che, a dire dei burocrati regionali più avveduti (e coraggiosi), potrebbe già considerarsi a tutti gli effetti di proprietà degli enti locali. Prendiamo una parte di quel “non finito” favarese, palmese, licatese, agrigentino, rendiamolo abitabile e destiniamolo ai “condannati a morte”, a quelli che noi tutti abbiamo condanniamo a morte, consentendo che abitino strutture non idonee: i linticchieddi, gli extracomunitari, i poveri,  quelli che non ce la fanno.

Ho firmato, per anni, le petizioni di Amnesty International e, ovviamente, continuerò a farlo. Ci si batte contro le condanne a morte, ma ad una condizione: che ci siano migliaia di km di distanza tra noi e i condannati. Sui condannati a morte nostrani, invece, nessuna petizione.

Vivere il sociale, quello dietro l’angolo.

Ing. Giuseppe Riccobene

amministratore Dicembre - 7 - 2011

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